
Oggi in Australia è stato lo RUOK Day. (“Tutto a posto?” day - ndt)
Inizia con un’organizzazione per la prevenzione del suicidio, ma è molto più di questo: è un’opportunità per intavolare discussioni importanti sui problemi di salute mentale con amici, parenti, colleghi.
È una buona occasione per interessarsi gli uni degli altri, non solo oggi ma ogni giorno dell’anno.
E mentre la mia giornata si sviluppava tra il controllo incrociato delle fatture delle infermiere, le lotte per migliorare le esperienze di mia figlia con i vari terapisti, e la stretta osservazione delle macchie sulla sua pelle (condizione considerevolmente peggiorata dopo aver contratto il covid, circa una settimana fa, e che potrebbe indicare il deterioramento della sua complessa e fragile condizione cardiaca), mi sono resa conto che per me non è tutto a posto.
Beh, almeno non come era prima.
Prima non dovevo sorvegliare i valori vitali di un altro essere vivente diverse volte al giorno.
Prima non guidavo tra una terapia e un appuntamento in ospedale, parlando di reparti, operazioni e condizioni cliniche.
Prima non avevo la responsabilità amministrativa di coordinare personale di supporto, tracciare le spese mediche, richiedere tecnologie assistenziali, mandare email a una dozzina di specialisti e terapisti in tutta Sydney.
Prima la mia vita era semplice. Non sempre facile, ma diamine se era semplice!
Non mi sento a posto, perché non è umanamente possibile essere a posto quando sei all’inizio del viaggio con la rara sindrome di tua figlia,
Non è realistico sentirsi a posto quando si vive in apnea, attendendo ansiosamente il giorno in cui il cardiologo di tua figlia ti dirà: “il momento della prossima operazione a cuore aperto è arrivato”.
Semplicemente, non è fattibile sentirsi a posto quando si teme che il prossimo ricovero ospedaliero sia dietro l’angolo, o che tua figlia possa sviluppare nuove condizioni mediche perché probabilmente la sua sindrome ne porterà delle altre.
Nessuno si sentirebbe a posto.
Io non mi sento a posto, ma mi sta bene parlarne.
Vivo con un livello di ansietà molto più alto di quanto abbia mai provato. Ma ne sono consapevole.
Convivo con inneschi psicologici e traumi che non avrei mai immaginato, e che a volte sembrano insopportabili. Ma sono intenzionata a lavorarci su.
Molte volte la vita è più dura di noi, e questo non ci fa sentire bene.
Ecco perché è importante parlarne. È importante dire “No, non sono a posto”. È importante monitorare come ci sentiamo: stressati, tristi, senza speranze, arrabbiati, irrequieti, ansiosi; e chiedere aiuto.
Il mio desiderio è che, l’anno prossimo, nello RUOK Day, io possa non essere così concentrata sulle molte ragioni per cui non sono a posto.
Voglio imparare ad esserci per gli altri, che potrebbero non essere a posto e nemmeno saperlo.
Voglio concentrarmi sulle molte volte in cui mi sento davvero a posto.
Voglio poter creare una comunità intorno a me, un villaggio in cui si possa contare gli uni sugli altri. Perché nessuno di noi è a posto sempre.
Tutti abbiamo bisogno di qualcuno che voglia stare ad ascoltare, e io voglio esserci per ascoltare.
Potrebbe non accadere domani, ma prima o poi tornerò a posto e ci sarò per gli altri.
Se non oggi, un giorno.

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